La lunga marcia di Stephen King

Esiste un unico autore al mondo in grado di tenere i propri lettori incollati alle pagine di un libro che dalla prima all’ultima pagina non parla che di una lunga, interminabile, disumana marcia. A lui, a Stephen King, non serve altro. E così quello che molti scrittori non sarebbero riusciti a trasformare in più di un lungo racconto, diviene un’opera affascinante e splendidamente scritta di circa 300 pagine, che finisci per divorare in un lampo.

Pubblicato con lo pseudonimo di Richard Bachman, il libro è ambientato in un’America distopica le cui differenze sono davvero minime e disseminate lungo tutta la marcia. La storia, come la morale, le lezioni di vita e gli elementi contestuali, quali appunto l’ambientazione, vengono appresi durante la lettura. Altri, invece, non vengono mai raccontati. Spetta al lettore immaginarli e comprenderli.

Il libro narra quanto accade, appunto, durante La lunga marcia, un evento nel quale ogni anno (forse, non è dato sapere quanto spesso accade) si sfidano cento ragazzi provenienti da tutta l’America. Incoscienti e tronfi delle proprie capacità, coloro che vengono scelti si sfidano una marcia infernale, un incubo reale nel quale fermarsi significa morire. Per avere salva la vita c’è soltanto una cosa che si può fare: continuare a marciare. Anche con la febbre, anche con l’appendicite, anche con la pelle dei piedi che si stacca e il sangue che segna il passo. Solo uno dei cento Marciatori potrà vincere il Premio, e chiedere qualunque cosa per la propria vincita. Gli altri novantanove, invece, sono destinati a morire.

La narrazione è pura tensione. Come la stupida e crudele folla che si ammassa per le strade pur di vedere i Marciatori passargli davanti, così il lettore si chiede come possano continuare a camminare o, più semplicemente, chi sarà il prossimo a morire. Potrebbe essere Garraty, il ragazzo del Maine attraverso i cui occhi, spesso stanchi, spesso allucinati, King racconta gli eventi? Oppure Olson lo sbruffone, o l’invincibile Stebbins, che pare non stancarsi mai, neanche dopo due giorni di cammino senza alcuna ammonizione.

La narrazione, da prima chiara e semplice, scorrevole e limpida, si fa sempre più confusa e potente. Il sogno interseca la realtà, la disperazione la ragione. Lo si legge nelle parole dei marciatori morenti e nei loro gesti terribili, racchiuso in un climax di pure follia che porta il lettore a struggersi quanto i personaggi del libro.

Gli spari ci sono, e si susseguono sempre più in fretta. I fucili continuano a congedare i Marciatori che, alla terza ammonizione, non sono più in grado di riprendere la marcia. Basta un crampo, un dolore intestinale, e puoi ritrovarti con un foro in mezzo al cranio. In un crescendo di emotività e follia, i marciatori parlano di sé stessi, si raccontano, impazziscono e muoiono. In tre giorni si formano amicizie e inimicizie, hanno vita momenti di solidarietà, di amore e di rispetto, ma, in fondo al proprio cuore, ognuno non vede l’ora di vedere l’altro morire, per poter smettere finalmente di camminare. Questa è l’America per King, una società malata, cinica e spietata.

Perché marciare? Perché lanciarsi in questo pazzo suicidio? Non è soltanto il lettore a chiederselo, ma anche i marciatori, lungo tutto l’interminabile tragitto. Coloro che hanno consapevolmente scelto di marciare, presto o tardi si chiedono perché lo stanno facendo. Forse per il Premio, che aspetta all’unico sopravvissuto della marcia, oppure, più presumibilmente, perché vogliono morire. King lo suggerisce in più passaggi, e in molti altri lo rende evidente. Chi è là, forse davvero non vuole nient’altro. Vuole soltanto farla finita, per una ragione o per l’altra. Ma quando sei lì, a camminare e camminare ancora, con i fucili puntati alla testa, te lo chiedi perché sei in marcia. E solo al quel punto ti accorgi di non voler morire davvero. Ti accorgi di voler vivere, di voler tornare a casa, di voler vedere tua madre. Ma i piedi non si muovono, il corpo è allo stremo. Perché, in fondo, è l’incoscienza ad averli portati lì, e niente riuscirà a riportarli indietro.

E allora ti chiedi come una madre abbia potuto lasciare che i suoi due unici figli marciassero, o come un Marciatore possa aver scelto di partecipare nonostante la moglie incinta che lo aspetta a casa. La lunga marcia è crudele: lo sono alcuni marciatori, lo è il Maggiore, lo sono gli spettatori, americani appartenenti ad una società malata che gode nell’assistere alla morte dei ragazzi. Il pubblico si accalca, gli striscioni inneggiano ai marciatori come eroi.

Poi finisci il libro, e cerchi altre pagine. Continui ad andare avanti e indietro, sicuro di esserti perso qualcosa. Non può finire così, non è possibile. Ma invece è proprio così che termina, con quel suo finale aperto preceduto da un colpo di scena tanto impossibile da prevedere quanto crudele, posto lì, bello e perfetto nelle ultime pagine di questo splendido libro. E se ti fermi un attimo a pensare che queste trecento pagine sono il primo vero libro di King, scritto anni e anni prima di Carrie, ancora in giovane età, non puoi che guardare alle pagine lette con ancor più ammirazione. Perché se il finale corre via forse un po’ troppo veloce, quasi frettoloso, le restanti pagine incarnano tutti gli elementi di una storia potente e splendidamente scritta.

E, da scrittore emergente, non posso che trovarmi ad odiare Stephen King ancora una volta.

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La lunga marcia
  • King, Stephen (Autore)

Autore: Stephen King/Richard Bachman
Titolo originale: The Long Walk
Traduzione: Beata della Frattina
Genere: Thriller
Editore: Sperling & kupfer

RASSEGNA PANORAMICA
Stile
Trama
Personaggi
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Gianluca Fiamma
Fingo di non aver compiuto trent'anni da un po'. Da oltre dieci anni racconto il mondo nerd ed esploro la cultura POP. Ho studiato narratologia e sceneggiatura e sono un appassionato di giochi da tavolo. Lavoro come blogger e marketer per diverse realtà internazionali.
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