Fra gli autori fantasy più apprezzati dell’ultimo decennio figura senza dubbio Patrick Rothfuss, scrittore americano adocchiato dagli editor fin dalla sua prima opera, The Song of Flame and Thunder, suddivisa nella nota saga fantasy The Kingkiller Chronicle, più nota in Italia come Le Cronache dell’Assassino del Re. La storia di come siamo arrivati a leggere questa interessante trilogia (scritta in sette anni e rifiutata per due) è piuttosto interessante e travagliata e la trovate narrata direttamente dall’editor di Patrick nell’ultima edizione del primo volume della saga, Il nome del vento, edito Mondadori.

In questo articolo, però, non voglio soffermarmi sulla trilogia, anche perché, purtroppo, non abbiamo ancora gli estremi per valutarla. L’autore, infatti, dopo la pubblicazione del secondo volume La paura del saggio (2011) sembra essersi fermato benché, a suo dire, il terzo e ultimo volume, dal probabile titolo Le porte di pietra, fosse già pronto fin dall’inizio. Come racconta in un’intervista a Sffworld, i libri sarebbero dovuti uscire uno all’anno. Purtroppo o per fortuna, un altro noto autore (vero, Martin?) ci ha abituati alle lunghe attese, facendoci dubitare dell’effettivo arrivo dell’ultimo numero della saga.

Qui vi parlerò soltanto de Il nome del vento, un libro fantasy che ho trovato sorprendentemente interessante per alcune sue caratteristiche narratologiche e di forma ma che continua a non convincermi pienamente a causa di alcune scelte di trama personalmente poco condivisibili e apprezzabili e di uno stile non ancora efficace.

Ma bando alle ciance. Prendete un bel respiro e lasciate che vi accompagni in questa recensione.

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La trama de Il nome del vento

Il nome del vento libro fantasyPatrick Rothfuss ci porta a scoprire i Quattro Angoli della Civiltà, un grande continente del mondo immaginario di Temerant in cui il mondo fra uomini e Fae è diviso da un velo molto sottile, per quanto gli stessi uomini siano in grado di utilizzare una magia governata da un complesso insieme di regole.

I primi personaggi che incontriamo sono un semplice locandiere di nome Kote e il suo assistente Bast. Inoltrandosi nella lettura, si scopre presto la vera identità del locandiere, quella del famoso mago/guerriero/musicista Kvothe, noto per aver ucciso un re, causando la guerra in cui è coinvolto in mondo attuale, e ottenuto il titolo di Assassino del re, e del suo assistente, un principe dei Fae. Il locandiere salva uno scriba, noto come il Cronista, da creature simili a grossi ragni, e questo gli chiede di poter trascrivere la sua storia. Dopo vari tentennamenti, Kvothe acconsente e comunica a Cronista che ci vorranno tre giorni per poterla raccontare (un giorno per ogni volume della trilogia).

Kvothe inizia la storia dall’infanzia, quando visse in mezzo a una troupe di artisti itineranti di grande fama conosciuti come Edema Ruh. I suoi amorevoli genitori lo addestrano fin dalla giovane età come attore, cantante e suonatore di liuto, scoprendo da subito quanto sia abilissimo in tutte queste arti e in ogni altro campo a cui rivolge la sua mano. La troupe acquisisce lo studioso e arcanista Abenthy, che forma Kvothe in scienza e simpatia: una disciplina che crea collegamenti da un oggetto fisico per consentire la manipolazione di un altro; in pratica, la magia. Kvothe vede anche Abenthy chiamare il vento per respingere i cittadini sospetti e giura di scoprire il “nome del vento” titolare, consentendo questo controllo. Durante un viaggio, i genitori e l’intera troupe vengono uccisi e Kvothe si trova davanti ai Chandrian, creature magiche di cui si narra nei miti e nelle leggende venuti a sterminare la sua famiglia per evitare che questi effettuassero ricerche su di loro.

Da qui inizia la vera storia di Kvothe, una storia prima di sopravvivenza e poi di ricerca. Il ragazzo, infatti, dopo anni passati a mendicare e borseggiare, si sposta verso l’Accademia, per diventare un mago e scoprire qualcosa in più sui Chandrian, così da avere finalmente vendetta.

Ma la storia funziona?

No, o meglio, non come dovrebbe. La storia, e il suo sviluppo, sono proprio fra le note più dolenti del romanzo.

L’incipit è intrigante è l’alone di mistero che ricopre inizialmente i tre personaggi è sufficiente a motivare il lettore e a creare una buona tensione narrativa. A livello narratologico, lo spunto ideato per avviare la narrazione risulta vincente, seppur non estremamente originale. Quando, però, Kvothe comincia a narrare la sua storia, qualcosa si spegne.

Per le prime 150 pagine, la storia non convince. La narrazione piatta e poco coinvolgente porta il lettore a domandarsi quando accadrà qualcosa degno di merito. Poi, nella parte centrale, sembra riprendersi un po’, per tornare a spegnersi nei capitoli finali, i quali risultano pesanti e a tratti soporiferi. Il punto più basso lo raggiunge nei capitoli dedicati al draccus, uno degli elementi meno apprezzabili dell’intero romanzo. La ricerca dei Chandrian, l’evento focale della storia di Kvothe e sul quale si sarebbe dovuto incentrare l’impianto narrativo, non trova spazio all’interno di un piatto susseguirsi di eventi.

La vuotezza della storia coincide inoltre con la prolissità dell’autore. Per quanto non accada niente di realmente importante, si susseguono invece un gran numero di eventi inutili e a tratti molto ingenui, allungando il brodo e dandogli un sapore un po’ di trito e ritrito.

La storia non è lenta, semplicemente non succede nulla di significativo! Non c’è un colpo di scena e i personaggi stereotipati portano il lettore a prevedere facilmente lo sviluppo della storia.

La scrittura non convince

Molti, lì fuori, elogiano Patrick Rothfuss per l’incantevole ed efficace stile. Le possibilità, a questo punto, sono due: o chi lo elogia non l’ha mai letto, oppure i traduttori hanno sbagliato qualcosa. È vero, la scrittura è senza dubbio piacevole e molto scorrevole, e solo in rari punti si fa confusa. Se scremata dalle molte ridondanze stilistiche e narrative potrebbe effettivamente risultare pulita, ma non incisiva.

Per quanto scorrevole, la scrittura risulta troppo semplice, a tratti banale, e lo stile eccessivamente piatto. Le parole scelte funzionano, ma non creano frasi memorabili e belle da leggere, quelle su cui ci si sofferma per apprezzare le qualità artistiche dell’autore. È una buona scrittura, ma come quella di un esordiente che ancora deve lavorare sul testo.

La simpatia

Il sistema magico è senza dubbio uno degli elementi narrativi che ho maggiormente apprezzato, il quale risulta intrigante fin dall’insolita scelta del nome che, quasi sicuramente, si rifà alla Magia simpatica. Il voler creare un sistema magico basato su strette regole ferree dal carattere scientifico e fisico è più che apprezzabile e il risultato effettivamente intelligente e fresco.

La disperata ricerca dell’originalità

C’è poi una caratteristica presente in tutto il romanzo che mi ha dato una fastidiosa sensazione di prurito ogni volta che la percepivo. Rothfuss, infatti, si impegna nel raccontare una storia fantasy dagli spunti originali e innovativi, ribaltando alcuni di quelli che sono i classici cliché e topoi del genere (si veda, per l’appunto, la sua interpretazione del drago, il draccus). Il suo impegno, però, risulta quasi sempre eccessivo, e risulta evidente come alcune scelte narrative derivino da una sua ricerca forzata volta a ribaltare il genere fantastico. La sensazione del lettore è che non l’abbia fatto per ragioni di trama, o per piacere personale, ma per portare qualcosa di nuovo che potesse affascinare gli editori e le case editrici.

E alla fine non possiamo dargli troppo torto, perché parrebbe proprio aver funzionato. Mi chiedo solo quanto della sua trilogia rimarrà nella storia.

Laddove, invece, l’autore rimane sui binari più classici, si trova a scopiazzare o a dimenticarsi l’approfondimento del contesto. Le mappe, ad esempio, risultano confuse e giusto abbozzate, e il worldbuilding che ne esce è piuttosto povero.

Personaggi

Credo che il problema principale del libro risieda proprio in uno dei personaggi, ovvero Kvothe, il protagonista, un ragazzo presuntuoso e insopportabile che per tutto il libro viene raccontato come la persona più infallibile, abile, intelligente, sveglia e capace al mondo, salvo poi peccare di stupidità ad ogni occasione. A rendere ancora più difettosa la sua caratterizzazione e le sue azioni è la nemesi che incontra all’Accademia, Ambrose, il classico stereotipo del nobile bullo. Fra i due si instaura fin da subito un imbarazzante scontro dai toni infantili che presto si tinge, come la restante trama, di una patina di noia.

Ovviamente non poteva non mancare l’interesse amoroso, rappresentato da Denna, una femme fatale senza spessore sulla quale non vi è nulla da dire, non avendo questa alcuna caratterizzazione. Quello che sappiamo di lei è che ha una bellezza tale da attrarre a se ogni uomo e che sparisce ogni volta che la si incontra, salvo poi ritrovarla esattamente dove si trova Kvothe, in un continuo ex machina forzato che già dal secondo ripetersi annoia e infastidisce il lettore.

Alcuni personaggi secondari, invece, denotano una caratterizzazione già più marcata, ma il loro ruolo infimo non permette di godere appieno del loro spessore.

Certo è interessante chiedersi come questo giovane forte e spavaldo si sia poi trasformato nel locandiere svogliato e per nulla interessato alla vita, ma i ganci che l’autore inserisce sono troppo pochi e deboli per attrarre davvero l’interesse del lettore, che durante la lettura perde la voglia di continuarla.

Recensione in sintesi

È facile capire perché gli agenti letterari volessero a tutti costi Il nome del vento (almeno così narrano le leggende dietro alla pubblicazione di questo numero). Questo libro, fin dalle prime pagine, denota senza dubbio un grande potenziale, rappresentato da ogni suo elemento. La struttura narrativa, la narrazione in prima persona, il sistema magico, alcuni ridotti personaggi. Eppure qualcosa pare non aver funzionato. Sembra quasi che l’editore si sia voluto accontentare della pietruzza grezza che aveva in mano, senza investire nella lucidatura e raffinatura della stessa.

Lo so, è vero, è solo il primo volume di una trilogia, ma è davvero un peccato vedere tanti errori e tante ingenuità in un’opera che con un lavoro di editing appena più pronunciato sarebbe potuta davvero diventare un cult della narrativa fantasy.

Il nome del vento è un buon libro fantasy per adolescenti, ma nulla di più. Un libro i cui pregi sono perfettamente bilanciati dai difetti. Una buona prima prova, ma non sufficiente a creare quel bisogno ossessivo di proseguire la lettura.

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Gianluca Fiamma
Fingo di non aver compiuto trent'anni da un po'. Da oltre dieci anni racconto il mondo nerd ed esploro la cultura POP. Ho studiato narratologia e sceneggiatura e sono un appassionato di giochi da tavolo. Lavoro come blogger e marketer per diverse realtà internazionali.
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